«Losing My Religion è quasi un errore». Queste parole di Michael Stipe, pronunciate al microfono di Hrishikesh Hirway in un episodio della serie Netflix “Song Exploder”, mi ronzano in testa da un po’ di tempo. Parlava della precarietà dietro la sua composizione, della funambolica ascesa verso l’Olimpo degli evergreen. Si è ritrovata lì, in mezzo ai grandi, pur essendo una tra le poche prive di ritornello, probabilmente l’unica guidata da un mandolino. Ci dev’essere un errore, non c’è altra spiegazione. Eppure c’è dell’altro.
“Losing My Religion” si è quasi scritta da sola. Il riff è piovuto dal cielo, nelle mani e nella testa di Peter Buck. Il pattern di batteria di Bill Berry è uscito naturale come un respiro. La linea di basso di Mike Mills ha richiesto qualche sforzo in più, ma a quel punto era anche la canzone stessa, già viva e pulsante, a pretendere che venisse affinata per diventare il capolavoro che era destinata ad essere.
Michael Stipe, dal canto suo, non ricorda di aver scritto il testo. Di una cosa però è certo: «No, non c’è niente di autobiografico». Una risposta istintiva, categorica, una certezza consolidata in decenni di interviste e domande a riguardo. Si potrebbe già passare alla domanda successiva, però… Eh no, un attimo. Michael prende coscienza, dopo decenni, di come le vulnerabilità narrate dalla canzone siano esattamente le sue. A quel punto è lecito chiedersi: lo erano già o lo sono diventate? È nata prima “Losing My Religion” o la sua rappresentazione nell’anima di Stipe? Come un simbionte, la canzone più famosa e importante dei R.E.M. potrebbe aver attecchito ai tessuti del suo autore, trasformando ciò che era pura invenzione in vita vera.
«Oh no I’ve said too much / I haven’t said enough». In due semplici e splendidi versi c’è il nettare della fragilità, il cuore dell’insicurezza. Quella buona, quella di chi dentro di sé nasconde un mondo, che forse non sarà mai pronto a riflettersi su quello esterno. Quella di chi ama, di un amore per cui la parole saranno sempre troppe, ma non saranno mai abbastanza.
Foto copertina di Henry Ruggeri.