Il 9 febbraio 1997 i Soundgarden si esibiscono a Honolulu, capitale delle Hawaii. La Blaisdell Arena ospita quello che sarà l’ultimo pubblico del Down on the Upside Tour, ignaro che quella serata storta entrerà a modo suo nella storia della band di Seattle. Come in ogni evento storico che si rispetti, c’è il contesto, reale, e c’è il pretesto, miccia di una bomba che è solo un oggetto di scena, orpello di un copione già scritto, mentre il vero ordigno nascosto sotto al palcoscenico divora con ingordigia gli ultimi secondi del countdown.
L’unico a vedere chiaramente la minaccia celata lì sotto, è Chris Cornell. Anche quando è fisicamente nella stessa stanza con gli altri il suo spirito è al buio, nell’ovattato silenzio dell’iposcenio. “Down on the Upside”, appunto. Nessuno può parlarci direttamente, a parte Susan Silver. L’unico sussurro che riesce a giungere alle sue orecchie è infatti quello che nasce dalla bocca della moglie e manager del gruppo, costretta a riferirgli ogni messaggio del mondo esterno.
In questo cupo scenario è Ben Shepard, bassista della band, a diventare la miccia per lo spettacolo pirotecnico. «La mia strumentazione stava morendo e non avevo alcuna intenzione di stare sul palco fingendo di suonare», dichiarerà Ben in seguito alla sua uscita di scena di quel fatidico giorno. Durante “Blow Up The Outside World”, esasperato dagli insostenibili problemi tecnici che affliggono lo show fin dal suo inizio, distrugge il basso, mostra il dito medio alla platea e si dilegua, prima di affrontare un furioso Kim Thayil nel backstage. Ironico: ad esplodere non è il mondo esterno, come nella canzone, ma quello interno ai Soundgarden. Chris Cornell e Matt Cameron sono gli unici a presentarsi per l’encore, a rovistare tra le macerie, per cercare di salvare qualcosa che, evidentemente, non poteva né voleva essere salvato.
«Abbiamo ottenuto tutto ciò che volevamo, abbiamo raggiunto la vetta della montagna e siamo tornati indietro». Due mesi dopo i Soundgarden annunciano la loro fine. L’episodio di Honolulu diventa per loro l’equivalente dell’attentato di Sarajevo del 1914, pretesto per lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Solo che mentre l’assassinio dell’erede al trono dell’Impero Austro-ungarico dà inizio a uno dei periodi più oscuri della storia dell’uomo, quel concerto desaturato pone fine a una delle avventure più gloriose della storia della musica.
Ecco, questo è ciò che avrei scritto in un qualunque 9 febbraio, prima del 2010, anno della reunion. Prima di gioire per il ritorno, ma prima di scoprire che anche la bomba nascosta sotto al palcoscenico era solo un oggetto di scena. Che il vero countdown non si sarebbe fermato il 9 febbraio 1997, ma avrebbe proseguito la sua lenta e fatale corsa per più di vent’anni ancora, fino al 18 maggio 2017, per sottrarci di più, molto di più.
Ed è come scrisse il poeta T. S. Eliot, nella sua “The Hollow Men”: «Così il mondo finisce / Non con uno schianto ma con un lamento».
«I’ve given everything I could
To blow it to hell and gone
Burrow down in and blow up the outside
Blow up the outside world»
Foto copertina di Henry Ruggeri.