Skip to main content

Ho passato tante, tantissime ore durante il primo lockdown in compagnia di Brian Fallon, ex-frontman della band americana The Gaslight Anthem. Le sue dirette Instagram, nella primavera del famigerato 2020, seguivano un format molto semplice: c’era lui, rinchiuso in casa come ogni altra persona durante la pandemia, seduto, con una chitarra in mano. A dividere lo schermo della diretta c’era ogni volta un artista diverso, chiamato a parlare di songwriting, esperienze, influenze artistiche, timori e speranze.

Dal suo salotto virtuale sono passati Andy Hull dei Manchester Orchestra, Chris Shiflett dei Foo Fighters, Laura Jane Grace degli Against Me, Dave Hause, gli Ida Mae e tanti altri. Si chiamava “Sittin’ Round At Home”. Era un appuntamento fisso, due volte a settimana, partito come uno dei tanti modi per sopravvivere all’oblio circostante ma diventato in breve tempo un privilegio più unico che raro. Ed era magnifico svegliarsi all’alba, molto prima che la sveglia suonasse, per recuperare la diretta della notte e avere l’opportunità di scoprire qualcosa in più su uno dei propri artisti preferiti.


La sindrome dell’impostore

Una delle prime cose emerse dalle chiacchierate a cuore aperto tra Brian e i suoi amici musicisti riguarda un aspetto molto intimo e delicato, non del tutto nuovo a chi lo segue fin dal principio. Brian sembra soffrire della cosiddetta “sindrome dell’impostore”. Se non la conoscete, beati voi. Banalmente, è la difficoltà nell’accettare e riconoscere il proprio valore. I successi sembrano determinati da fattori esterni, non da meriti propri, mentre gli insuccessi sono assolutamente causati dalle proprie mancanze. Ce l’hai fatta? Che culo. Non ce l’hai fatta? Mpf, non te lo meritavi. Questo è quello che ci si dice allo specchio, quando si indossa la scomoda e antiestetica sindrome dell’impostore. Il corollario è una subdola vocina nella testa che sembra ripetere continuamente: «sei spacciato, adesso scopriranno il tuo bluff, perderai tutto». Pensiero caustico e ricorrente, che ovviamente trova poca comprensione da parte del mondo esterno.

Paradossale, perché la parte migliore della sua arte è sempre nata dalle sue imperfezioni. Come la sua voce, incerta, spesso imprecisa, ma potente ed espressiva. In alcuni live è come se potesse soggiogare ogni strumento della band piegandolo al proprio volere, come se la musica fosse talmente marginale da diventare una naturale armonizzazione del suo cantato. In altre occasioni sembra voglia tenere il volume del proprio microfono il più basso possibile, per non farsi sentire o, forse, per non mettere alla prova le proprio corde vocali, avvertite come consumate e sfilacciate, pronte a spezzarsi alla minima sollecitazione.

Non serve andare tanto a fondo per trovare traccia di tutta questa insicurezza anche nella sua produzione musicale: basta leggere il testo di “Here’s Looking At You, Kid” dei The Gaslight Anthem. In una delle sue ballate più famose e amate si rivolge a ogni donna del suo passato, millantando – secondo lui – false prodezze da artista di successo in un verso, ritrattando tutto in quello successivo, per poi mettere sul tavolo i cocci del suo cuore spezzato.

«And you can tell Jane, if she writes,

That I’m drunk off all these stars and all these crazy Hollywood nights.

And that’s a total deceit, but she should’ve married me»

Here’s Looking At You, Kid – The Gaslight Anthem

Auto, ruote panoramiche, radio e fogli di carta

Per Brian Fallon le parole sono sempre state più importanti della musica. L’ha detto in numerose occasioni: «se hai le parole giuste, la musica viene fuori da sola». Per questo cita sempre Leonard Cohen come uno dei suoi pilastri artistici. E in effetti pochi altri gruppi rock dell’ultimo ventennio sono riusciti a creare una poetica così forte e riconoscibile come quella dei Gaslight.

C’è una certa passione per tutto ciò che è retrò, vintage, impolverato da buone intenzioni e buoni sentimenti. Ci sono vecchie auto, quelle degli autostop, dei drive-in, delle lunghe highway americane che furono il palcoscenico della Beat Generation, fraintesa ed emulata. Ci sono ruote panoramiche che sembrano destinate a girare in eterno, per impedire che qualcosa di oscuro possa interferire con un amore che dovrebbe essere imperturbabile. Ci sono radio antiche che determinano la perfetta colonna sonora, con un mix di casualità e magia, parlando a chi le ascolta come se ci fosse un messaggio speciale da recapitare personalmente. Ci sono lettere scritte a mano, su fogli di carta, al chiaro di luna, con l’inchiostro messo in circolo dall’unica meccanica degna di farlo: quella cardiaca.

«Here in the dark, I cherish the moonlight

I’m in love with the way

You’re in love with the night

And it travels from heart to limb to pen»

Handwritten – The Gaslight Anthem

Parla di me, parla di noi

Tempo fa, tra una ristretta cerchia di fan dei Gaslight, era partito un drink game: ascoltare la discografia e bere uno shottino ogni volta che Brian cantava le parole “radio”, “blues” o “Mary”. Ve lo dico: non si può fare. Un massacro, un’ecatombe alcolica, che però darebbe una vaga idea di quanto sia viscerale la sua penna.

Radio: il mezzo. Blues: il messaggio. Mary: il destinatario. Si tratta sempre di questo, di comunicare qualcosa a qualcuno, facendolo nel modo più bello tra quelli concessi. La radio è quella divinità di un mondo antico, che richiede un atto di fede e alla quale rivolgere una preghiera. Il blues è il più puro dei contenuti, quello che si sta perdendo, quello che va preservato. Mary, invece… Beh, Mary è Mary. In una delle tante dirette del 2020 – ma sicuramente era già noto ai più attenti – è venuto fuori che Mary è il realtà il nome della nonna di Brian. Ma Mary è anche e soprattutto un archetipo, quello della persona per la quale si scrive ogni parola.

Nessuna parola è messa lì per caso, nessun messaggio parte senza avere un destinatario. Per questo chi sta intorno a Brian e ha avuto un ruolo nella sua vita, probabilmente, più volte si sarà chiesto: «Sta parlando di me? Sta parlando di noi?». Parallelamente, i suoi fan più affezionati sono diventati tali perché ogni suo verso fa pensare e affermare, senza dubbio alcuno: «Sta parlando di me. Sta parlando di noi».

«But it’s just the blues, Mary the blues

Swirling around my head like your dreams in Dorothy’s shoes,

I’m somewhere over the rainbow for you»

The Blues, Mary – Brian Fallon

Il figlio del Boss

Gli hanno frantumato le palle fin dall’inizio per via di questa sua passione per Bruce Springsteen. Come se fosse quasi un limite e non un pregio, quello di essere cresciuto col viso rischiarato dalla luce di una delle stelle più luminose del firmamento rock americano. Come se fosse possibile nascere in una cittadina vicino ad un fiume, nel New Jersey, nel 1980 (l’anno in cui Sprinsteen ha pubblicato “The River”, tra l’altro) e sfuggire a una tale forza gravitazionale. Tra Red Bank – luogo di nascita di Brian – e Long Branch – luogo di nascita del Boss – ci sono meno di sei miglia di distanza, circa un quarto d’ora d’auto. Dai, su.

Nel 2008 la stampa etichettava i Gaslight come “la band consigliata da Springsteen”, perché Bruce aveva eletto “The ‘59 Sound” il suo album dell’anno. E da lì in avanti a Brian venne affibbiata la falsa presunzione di volerne essere l’erede. Ecco, ricordate la storia della sindrome dell’impostore? Immaginate di dover reggere una cosa del genere, nel pieno della propria crescita professionale, convivendo con la convinzione di non meritare neanche lo spazio su un palcoscenico. Insostenibile.

Per fortuna la fase del rifiuto verso ogni accostamento col suo padre artistico è durata poco e sembra archiviata da tempo. Adesso, nei concerti da solista, Brian racconta di quando Bruce gli manda messaggi – «Ehi, il Boss ha il mio numero e lo usa» – e non si vergogna di individuarlo come mentore e individuarsi come fan. Anzi, a chi denigra la sua terra, il New Jersey, risponde con orgoglio: «Vi abbiamo dato Bruce Springsteen, stronzi ingrati!». E seduto davanti al suo pianoforte, nel suo studio, suona la versione alternativa di “Stolen Car” – quella tratta da “The Ties That Bind” – riuscendo a stento a mantenere il controllo emotivo per arrivare alla fine del brano.

Ma soprattutto, nessuno può ormai rendere torbido il ricordo dell’estate del 2009. Quando in due occasioni, al Glastonbury Festival e all’Hard Rock Calling, Brian è salito sul palco per dividere lo stesso spazio con Bruce e la E Street Band. A cantare “No Surrender”, canzone della vita, con gli occhi lucidi e la voce di un leone. Con Little Steven a guardare Bruce con espressione compiaciuta, muovendo il capo in segno di approvazione, come a dire: «Hai fatto un ottimo lavoro col ragazzo!». Un ottimo lavoro davvero.

«‘Cause we made a promise we swore we’d always remember

No retreat, baby, no surrender»

No Surrender – Bruce Springsteen

Respirare nel ciclone

Uno dei motivi per cui Brian Fallon si è sempre collocato a margine del music business, l’abbiamo detto, è che è sempre stato convinto di non valere abbastanza per starci in mezzo. Prima ancora di rifiutarne le dinamiche e le convenzioni, come un circo del quale non vuole essere uno dei tanti pagliacci dal naso rosso, non sente di meritarsi il successo che in un modo o nell’altro gli è arrivato. A fare il rocker sente di esserci finito quasi per errore, tant’è vero che il momento di massimo comfort in tutti gli anni con la band, sembra averlo raggiunto in un capitolo al di fuori di essa: i The Horrible Crowes.

Questo inestimabile side-project è nato dal sodalizio col chitarrista Ian Perkins, grande amico di Brian e insostituibile musicista, membro-fantasma dei Gaslight. Quello che non compare nella line-up ufficiale, ma, testuali parole, «suona meglio di tutti noi». Un classico.

La spontaneità e la leggerezza dimostrate con i Crowes non sono mai più apparse dopo quella felice parentesi, nonostante un altro timido tentativo di divagazione con i Molly And The Zombies, estemporaneo abbozzo di progetto del 2013 i cui unici brani inediti sono poi convogliati nel primo disco solista. Anzi, nonostante i buoni risultati commerciali, nonostante le magnifiche canzoni e gli ottimi live, pian piano Brian sembra aver esaurito l’ossigeno sotto la campana di vetro dei Gaslight, tanto da scegliere di interromperne la marcia proprio quando – secondo i piani prestabiliti – avrebbe dovuto iniziare a correre sul tapis roulant della propria major. Dopo “Get Hurt”, forse il disco più sottovalutato della sua carriera, una domanda ha infatti invaso la testa di Brian e soci: «Perché lo facciamo?». Non trovando più una risposta, fermarsi è stata l’unica opzione possibile.

«And it’s such a shame

I heard the wind say this morning

Be still my heart

I age by years at the mention of your name»

Behold The Hurricane – The Horrible Crowes

La scintilla

Nonostante aleggino ancora delle speranze per una reunion dei Gaslight – la seconda, dopo quella del decennale di “The ‘59 Sound” – la dimensione attuale, quella solista, sembra l’unica adatta al Brian Fallon di oggi. Inutile negarlo. Perché può fare quello che gli riesce meglio: raccontarsi. Fanculo ai dogmi da rockstar, ai canoni e alle aspettative. Perdonarsi per i propri fallimenti, imparare dalle proprie paure e continuare a inseguire i propri sogni. Crescere artisticamente contando su una fanbase legata indissolubilmente, ritrovando la motivazione iniziale, quella del monicker “No Release”, nei primi esperimenti del 1997.

Una motivazione che si traduce banalmente in un sorriso, come quello colmo di stupore con il quale si approccia a ciò che di bello gli si para davanti. Capita di vederlo in ogni sua esibizione dal vivo, in reazione a uno dei tanti siparietti che mette in scena con i fan delle prime file, ma è un contesto che si è ricreato sistematicamente in ogni singola diretta durante il lockdown. A ogni rivelazione degli artisti ospiti del suo spartano talk show, ma soprattutto a ogni loro canzone suonata per lui, unico elemento visibile di un pubblico invisibile, eccola lì: l’espressione della meraviglia. Una rara scintilla, che scaturisce dal suo sincero amore per la musica, per poi divampare in qualcosa che appare totalmente fuori schema. Un glitch, un’imperfezione nel sistema. Arte.

«And in our love we find forgiveness

And in our fear we learn to see

And in my chains I saw us running

Free as all the pretty horses in my dreams»

Horses – Brian Fallon
Close Menu
So walk tall, or baby, don't walk at all.