“The End is the Beginning is the End”, cantavano gli Smashing Pumpkins nel 1997. Una canzone finita nel dimenticatoio ma che valse loro il secondo e ultimo Grammy vinto in carriera; «The Beginning is the End and the End is the Beginning», invece, è stato il mantra che ha accompagnato l’acclamata serie Netflix “Dark”, giunta quest’anno ad un’ottima conclusione. Il tema è trasversale e ricorrente, negli anni, in molte espressioni artistiche. E da qui voglio partire per questo nuovo inizio. Nato, ovviamente, da una fine.
Ma voi vi ricordate qual è stato l’ultimo concerto che avete visto? Parlo di quelli veri, in piedi, da grandi numeri, attesi per mesi. Ve lo ricordate, vero? Ovviamente sì. E guardate: solo due anni fa ci sarebbe stato il rischio, per alcuni di noi, di metterci un po’ per focalizzare quale fosse stato. Ma non oggi. Per tutti gli amanti della musica, quelli che hanno assaporato il gusto dei Festival bulimici di band e delle estati lunghe sei mesi che finivano con gli appuntamenti di ottobre, al chiuso delle grandi arene, con già in tasca i primi biglietti per l’estate successiva, il ricordo dell’ultimo concerto di massa è qualcosa che resterà per sempre nella memoria.

Sono passati più di 8 mesi da quel febbraio di quest’anno che ha sancito la fine dei grandi eventi live in Italia e, da lì a poco, nel resto del mondo. E probabilmente – è inutile fare gli ottimisti – ne passeranno altrettanti prima di poter vedere qualcosa di simile, anche solo limitatamente agli artisti nazionali. Sì, perché per i grandi live act internazionali una previsione realistica, di ripresa, ci proietta all’anno di grazia 2022.
La parola che ha stravolto tutto, in questi mesi, è stata questa: “essenziale”.
Da un’accezione positiva, pre-lockdown, si è trasformata in qualcosa di più tetro, perentorio. È diventata il prefisso di un’azione di esclusione. Chi è essenziale può continuare a vivere chi non lo è si deve fermare. Ecco, il messaggio che è passato è che la musica live non è essenziale ed è un messaggio profondamente sbagliato. La musica live si sarebbe meritata ben altro. Almeno della sincerità.
I grandi eventi, quelli che, nel nome della forma artistica e culturale che è la Musica, raccoglievano fianco a fianco in un unico luogo 50, 60, fino ad oltre 100mila persone di etnie, convinzioni politiche e religiose diverse, erano e saranno una – se non l’unica – forma di speranza e di vaccino ai virus più dannosi degli ultimi cinquant’anni: l’egoismo individualista e il fanatismo.

Non a caso il 13 novembre 2015, la notte nella quale molti di noi vivevano il concerto dei Foo Fighters a Bologna come uno dei “concerti dell’anno”, a Parigi il fanatismo attaccava armi in pugno un club, facendo una strage di innocenti al concerto degli Eagles of Death Metal, con lo scopo di spezzare le ali a questa forza aggregatrice. Dopo quel vile attacco nulla fu più come prima, rinunciammo a molto, aumentarono i sacrifici per poter assistere ad un concerto, ma non ci si fermò.
Oggi, sì. Ci fermiamo. Ma non perché non siamo essenziali. Lo siamo, sempre di più. Se passasse l’idea della non essenzialità, non ripartiremmo mai più e i danni sarebbero permanenti. Oggi ci fermiamo perché è pericoloso. Ecco la verità che si meritava la musica dal vivo. E non è un giocare con le parole, un arrivare al punto di partenza, partendo dalla fine. Non è “The End is the Beginning is the End”, è essere giusti e attenti.
La musica è sempre stata pericolosa, e sempre lo sarà ed è per questo che ha sempre avuto dei nemici, dai governanti alle lobby (quelle vere), dalla censura all’incriminazione per reati commessi da altri. E come ha sconfitto ed è sopravvissuta a questi, se glielo permetteremo, sopravvivrà anche alla pandemia. Basta ridefinirla per quello che è: essenziale.
Ripartiamo da qui.