Skip to main content

Atto primo: Dani

La verità è che non ci andrò mai d’accordo, con la tecnologia. Dopo un po’ di rifiuti, tre o quattro capricci, vicoli ciechi telematici e malfunzionamenti, sono riuscito a collegarmi con Umbe e Lalli. Questa sera vedersi è importante, dobbiamo discutere di come parlare su Rocks And Shots del primo anno di vita di “Gigaton” dei Pearl Jam, e come sempre – ed è una cosa che adoro – la discussione su una strategia di redazione diventa quasi subito un pretesto per parlare di musica. Capita che il piano editoriale finisca in secondo piano, e le passioni vengano fuori così, come temporali estivi. Paure, rivalse, rabbia, amore. Si parte, giusto il tempo di prendere consapevolezza di quanto è diventato inusuale pensare che le persone con le quali parli tutti i giorni siano a tutti gli effetti delle entità ancora esistenti, da qualche parte. Che occupano uno spazio e che puoi toccare.

Esordisco con il primo degli interventi inutili (ce ne saranno altri), una battuta sul fatto che potremmo impostare l’articolo su come ognuno di noi pronuncia “Gigaton”. Dove cade l’accento? Battuta stupida e non proprio inedita, ma che porta con sé la presa di coscienza di due fatti strani e significativi: praticamente ognuno di noi lo pronuncia in maniera diversa, e che nessuno ricorda uno qualsiasi dei componenti dei Pearl Jam pronunciarlo nella maniera corretta per avere una traccia, una guida. Allora Umbe, con la sua postura un po’ di tre quarti, dice una cosa che mi colpisce. Sapete lui sembra quasi bidimensionale, come un eroe di una graphic novel, uno di quelli abituati a sopravvivere a tutti, sia agli amici che ai nemici, e al fatto che questo sia più una maledizione che non una fortuna. Insomma, dice che se i Pearl Jam non credono nel loro prodotto, come potremmo farlo noi? Comincia a gesticolare, parlando con una qualche entità che solo lui vede nell’angolo in alto della stanza. «Non sembrano nemmeno reagire ad una negatività corrosiva di gran parte del loro seguito. Non a livello di comunicazione, ma nemmeno a livello artistico. Semplicemente lasciano “Gigaton” lì, parcheggiato come se non esistesse, in continua gestazione per un futuro in cui si potrà suonare ai concerti».

Parlare di reazioni del pubblico crea uno smottamento in Lalli, che si muove come scossa da un qualche turbamento interno, un piccolo demone che tenta di venir fuori e frantumare quella compostezza che mantiene non si sa come, a seguito di battaglie quotidiane che non ci è dato sapere ma, di tanto in tanto, intuire. Dice che non capisce questo astio nei confronti della musica di un gruppo da parte di chi strombazza per esso amore eterno. «È come uno che si ripete quanto odia correre, mentre sta correndo. Che senso ha?». Il tono della sua voce ha un’interessante oscillazione verso gli alti, e mi chiedo quanto si renda conto di soffrire per come i suoi Pearl Jam sono trattati, della paura che traspare, paura che questo li ferisca e li convinca a mollare. Il suo tono ha quasi lo sdegno del racconto di un tradimento di corte. Non per niente è per tutti, in redazione, La Regina. Mi rendo conto proprio in questo momento che i fan dei Pearl Jam hanno accettato tutto come una Parola Divina, fino a quando uscì “Nothing As It Seems” come primo singolo di “Binaural”, nel 2000. Da quel momento in poi ogni cosa che han fatto ha diviso, e venti anni di incomprensioni con i propri fan sfiancherebbero chiunque. Soprattutto da quando il mondo telematico ha dato voce ad ogni singola entità terrestre. Ma appunto, come dice Umbe, non hanno mai dato segnali di cedimento o di voler cambiare rotta seguendo gli umori dei fan. Piuttosto seguendo dinamiche di gruppo che purtroppo hanno tutta l’aria di essere centrifughe.

Ho sempre visto Umbe come un Don Chisciotte che combatte contro il Caos. Un ingegnere della vita e di tutte le sue componenti, che deve trovare un posto a tutto. E con tutto non intendo solo gli oggetti, ma anche le emozioni, i sentimenti, le entità assolute. È un lavoro che lo tiene impegnato in una battaglia epica e impari ogni secondo del suo vivere. Guardo i libri che ha disposti nella parete dietro di lui e penso che sicuramente sono posizionati in un ordine ben preciso, che comunicano in codice un messaggio al quale non arrivo e che non smetterò mai di cercare. Penso che questo dica molto sul nostro rapporto.

Il mio elucubrare mi fa quasi perdere quello che stanno dicendo le sue labbra che si muovono, perciò attivo l’audio esterno e sento una cosa su “Gigaton”, sul significato che ha avuto in quel momento preciso della Storia umana, ma non voglio anticipare niente, perché spero lo faccia lui. Io intervengo dicendo a Lalli che secondo me dovrebbe fare una nuova recensione un anno dopo. Sapete, le recensioni fatte troppo vicine all’ascolto lasciano il tempo che trovano. Un album deve vivere con te per scambiarsi sensazioni, per conoscersi. E so che magari con diffidenza e raramente, ma lei e “Gigaton” in un anno qualcosa si sono detti. Lei come al solito mi ascolta più per delicata educazione che altro e io ve l’avevo detto che avrei fatto più di un intervento inutile.

Stanchi e spaesati dalle nostre stesse reazioni, ancora incerti su come parlare di un album che non ha vissuto, che non ha viaggiato, che non è uscito dalla sua camera in quest’ultimo anno, proprio come ognuno di noi, mi viene in mente che l’unica cosa che ho imparato questa sera è che se qualcuno ci avesse ascoltato dall’alto, sospeso sopra le nostre entità incorporee come in una seduta spiritica, avrebbe capito qualcosa sull’amicizia, sulla passione, e credo che gli sarebbe venuta una voglia matta di dare una seconda chance a “Gigaton”.

Daniele Corradi


Atto secondo: Lalli

Mai quanto negli ultimi, lunghissimi dodici mesi, i rituali sono diventati importanti per scandire quello che sembra un tempo sospeso tra pause, riprese, interruzioni, tentativi, fallimenti e speranze. Una battaglia in nome della normalità, chi l’avrebbe mai detto? Nonostante le facce provate dalla giornata, anche questo giovedì (dopo cena), Umbe ha scoccato la freccia, il link di Google Meet per la riunione di redazione. Un appuntamento fisso, il nostro modo per rimanere in contatto con una dimensione che prima vivevamo insieme, ai concerti, faccia a faccia, e faccia a faccia con la meraviglia. Ora, la luce che si accende è quella della videocamera del pc, i microfoni non superano il volume “100” sulla barra degli strumenti ma l’opportunità di parlare di musica con loro, di comunicare quello che vivo ogni giorno – e che spesso non voglio far trasparire – attraverso dibattiti, progetti, momenti di confusione, risate e sospensione di ogni giudizio, mi fa stare bene.

“TLIN”, richiamo tecnologico.  «Ciao ragazzi!». Ah, uno è già freezato. Almeno stavolta non sono io quella ad avere l’immagine bloccata, l’audio ancora attivo (con imprecazioni) ed il video salvato per essere presa in giro qualche minuto dopo. Appena i pixel dell’immagine di Dani si ricompongono, arriva puntuale la domanda sul Flash Friday. «Come siamo messi per domani?».  Alla fine il responso è sempre lo stesso, sia nel caso della sicurezza sui singoli da trattare sia in quello del completo brancolare nel buio. «Vabbè vediamo dopo mezzanotte. Ci sentiamo domani mattina presto». «Ok». «Beh, però dobbiamo pensare all’anniversario di questa settimana (TADADADAN!). Il 27 marzo è un anno dall’uscita di Gigaton». Balle di fieno, pronunce molteplici del titolo con l’accento che, per ognuno di noi, vola da una vocale all’altra come una foglia d’autunno. È questa l’immagine che mi travolge mentre Umbe dal suo quadratino mosaicizzato –  il suo è un mondo dall’ordine impeccabile –  ricorda quanto valore avesse dato a quella pubblicazione. È vero, anche io. Ma ho scomodato la metafora dell’autunno perché, pur nella sua giovane età, l’album sembra ingiallito. Le cascate protagoniste dell’imponente copertina appaiono immobili, cristallizzate. «Eppure Dani, io e te ne avevamo scritto positivamente», in entrambi i fossili editoriali che oggi non esistono più. Le nostre recensioni erano entusiaste, noi eravamo entusiasti. Sì, sì, sempre noi tre, sempre a distanza, con un link di preascolto sullo schermo (quanto mi ero incazzata con chi lo faceva girare inappropriatamente!). Quanto era la bollente curiosità per il disco più atteso del 2020, dopo ben sette anni da “Lightning Bolt”. Dopo ben sette anni, soprattutto, dall’ultimo lavoro in studio della mia band del cuore, come se non si sapesse. Per questo condividere il primo giro di valzer con due amici preziosi era stato ancora più indimenticabile. Anzi, Daniele aveva ceduto prima: «Là, è bellissimo», avevo letto in un suo messaggio. «Dai Umbe, non possiamo più aspettare». Eravamo sincronizzati: i minuti dei nostri lettori multimediali scorrevano in simultanea, lo stupore, l’appagamento, le teste a ritmo su “Dance Of The Clairvoyants”, pure.  Il collegamento a Kerouac di “Quick Escape”, il desiderio che “Seven O’Clock” non finisse mai, pure. «Traccia 6, minuto 4. Quella melodia lì: c’è un momento simile in “Parachutes” di “Avocado”. Momenti di epifania melodica», era spuntato, in un altro messaggio.

È ancora vivida la percezione che, dopo il giro di boa, la seconda parte fosse più debole. «Beh, ma “Comes Then Goes” non è quella in cui Eddie parla più esplicitamente di Cornell?». «Sì, vero». Anche il video di “Retrograde”, con le illustrazioni e le insegne luminose issate a nomenclatura art-pop della discografia, mi aveva fatto sobbalzare. E che dire di “River Cross” ed il viaggio spazio-tempo, in connessione con il brano di apertura al Firenze Rocks 2019 –  una vita fa – e l’esibizione livestream dello studio del frontman per l’evento benefico “One World: Together At Home”, organizzato da Lady Gaga. E la pop star in persona (chi dimentica il suo urletto su “Eddie Vedder” durante l’annuncio degli artisti partecipanti è complice) con le lacrime agli occhi, appiccicata al proiettore. «Dobbiamo ammettere che “Gigaton” è un album che ha super risentito della mancanza dei concerti. Ad oggi, mi chiedo come potrebbero essere arrangiate certe canzoni», dichiaro dalla mia postazione. Magari sono l’unica o siamo gli unici a domandarcelo. Emerge, infatti, che i membri stessi della band, in questi mesi, non hanno fatto accenni approfonditi alla loro più recente creazione. Cazzo, ognuno ha partecipato o, addirittura, ha fondato un progetto parallelo: Gossard i Painted Shield, Ament i Deaf Charlie, Cameron i Nighttime Boogie Association, McCready è ovunque, Eddie è alle Hawaii. Erano tantissimi quelli che nei, giorni immediatamente successivi alla release, consideravano “Gigaton” l’album solista del cantante dei Pearl Jam e il gruppo l’elemento di contorno. Ho sempre rifiutato e tentato di confutare tale teoria. 

Sono consapevole che nella videochiamata il mio timore sul destino dei PJ è venuto a galla, un po’ come quelle calotte polari a rischio scioglimento. Ho apprezzato tantissimo il loro sguardo sulla contemporaneità, sulle questioni sociali, politiche, climatiche. Sono sempre stati sensibili non solo all’universo musicale ma anche a quello che li circondava. Ciò che mi manca, però, è il loro universo interiore. L’urgenza, l’emotività, la coesione che esplodono sui palchi e che – lo dico stringendo davvero pugni e stomaco – non riesco più a toccare con mano. Lungi da me affermare robe tipo «non sono più i Pearl Jam di “Ten”, “Vs.”, “Vitalogy”, “No Code”» e poco altro perché poi – per la fan base tradizionale – tutto il resto è più o meno da buttare. Sia mai che cada nell’errore che critico più in assoluto, perpetrato da quella che considero una categoria da studiare quasi scientificamente: “I fan dei Pearl Jam”. Individui che, da circa venticinque anni, distillano il pretesto per rimembrare gli antichi fasti, i memorabili salti, i ruvidi anfibi ed i lunghissimi capelli come veli immacolati di una sacra sindone, morta e sepolta.

«Vi confesso che, una volta, credevo che nessuno fosse più forte dei fan dei Pearl Jam» – se ne esce Dani – «Li immaginavo come una sorta di supereroi. Da quando ho realizzato che molti cestinano anche “Binaural” …boh…se li incontro, cambio strada». Fino a poco tempo fa – Vostro Onore – non ero per nulla oggettiva nei confronti di Eddie, Stone, Jeff, Mike e Matt. Forse non lo sono del tutto neppure adesso perché – suvvia! – chi rimane neutrale di fronte all’amore? O con i battiti accelerati per quel brano (quasi tutti!), ascoltato in quel preciso istante, con quell’imprescindibile significato?

Tuttavia, crescendo – come sono cresciuti e (attenzione, lo dico) un po’ invecchiati anche loro – ne riconosco i limiti e non riesco ad inquadrare la direzione che imboccheranno in futuro, una strada che percepisco molto distante da quel fuso ineluttabile che squarciava il cuore di “Yield”. Sono sicura che Umbe e Dani si sono accorti della mia agitazione. Il primo sorride, sa. Il secondo penserà che ormai sono decollata e non ascolterò più nient’altro, durante la call. Devo recuperare terreno, in qualche modo. Non per stupido orgoglio o per opinione trincerata a tutti i costi. «Boh, non so voi ma io, pur non ricordando la tracklist a memoria, sono assalito dalla voglia di riascoltare “Gigaton”, di dargli una seconda chance, adesso. Poi oh, raga» – come da copione – «Per sabato, ci verrà in mente qualcosa no?». Ecco la questione che salta l’ostacolo, che ruota attorno quei petali che recitano «amo o non amo i Pearl Jam, mi piace o non mi piace Gigaton». 

«Sì, anche io lo riascolterò per intero. Ho sempre selezionato le canzoni preferite, ma, tra domani e sabato, lo riprenderò tutto dall’inizio alla fine, per capire che cosa mi trasmette. Non può esaurirsi tutto nella promozione trascurata, nelle dissacrazioni continue, nei commenti negativi. Che poi…saranno pure arrivati ad un punto altissimo e non se la prenderanno mica per l’accumulo di detrattori. Però, però, che qualche vibrazione strana ti arriva anche se sei Eddie Vedder. Arriva a me, ogni volta che muovono un passo, come se lo avessi mosso io, solo perché la mia posizione è ormai risaputa. Figuriamoci! Rivedere gente invasata ai concerti, maratone e scatti olimpionici per conquistare la transenna, salti in alto per accaparrarsi plettri e cimeli e… “Sì, però era un po’ giù di voce”. Ma dai».

Ok, mi sono scaldata. Mi ricompongo. «Vi dico questa, poi rifletto anche io e ci confrontiamo per l’articolo di anniversario». «Ok, vai». «Per “Letter To You”, Bruce Springsteen ha registrato alcune puntate radio all’interno del suo programma, con alcuni ospiti. Ha partecipato anche Eddie. “Sai Bruce” – ha quasi sussurrato – “Ciò che mi ha colpito del vostro video è la scena in cui vi abbracciate, una volta concluso il disco. Ecco, io quel frangente speciale non l’ho potuto vivere assieme ai miei fratelli, a causa dell’isolamento imposto dalla pandemia. Mi è mancato davvero tanto. Mi sono mancati e mi mancano”».

Sono arrivata a questa conclusione, un anno dopo “Gigaton”, un anno oltre “Gigaton”. Quell’album per me ha significato realizzare che il mondo stava mutando ed era quella la colonna sonora, suonata dalla band che non mi ha mai abbandonata, neppure negli attimi più oscuri. La band che ha scelto di pubblicarlo comunque, nonostante l’ombra gigantesca dell’emergenza e – soprattutto – lo spettro della loro fragilità e della vulnerabilità, in primis. La realizzazione che, dal 27 marzo 2020, live, festival, occhi sgranati davanti a pile di vinili, birre, arrovellamenti esistenziali in compagnia degli amici sarebbero diventati un lontano ricordo ed un futuro miraggio. La realizzazione, però, che con quegli stessi amici, con quelle persone speciali con cui condivido la sensibile passione per la scrittura e per la musica il legame si è (ri)consolidato. Insieme siamo forza e tenacia, come il messaggio veicolato dai Pearl Jam, dai loro testi, dai loro riff. Da Ten a Binaural, da Riot Act a Gigaton. Da Seattle alle punte dei nostri giradischi, alle casse dei nostri impianti in camera. Dal principio ad oggi, a chissà quanto altro tempo

Laura Faccenda


Atto terzo: Umbe

Ogni volta che clicco sul pulsante “Avvia una nuova riunione” di Google Meet ho sempre un secondo di esitazione, durante il quale già sento convergere ricordi e premonizioni. Una sorta di esperienza pre-Meet. E prima di tutto mi immagino Dani, che inizia a sudare freddo pensando a quali inconvenienti tecnici dovrà affrontare questa volta.

Solitamente, mentre prova a capire perché non riesco a vederlo e/o sentirlo, mi arriva la consueta notifica dell’ormai istituzionale messaggio di Lalli: «arrivo». Si collega quasi sempre con qualche minuto di ritardo – ma lei può, in quanto Regina di Rocks and Shots – e becca me e Dani a parlare di cinema. Da quando non ha più problemi di connessione (peccato, perché i suoi “freeze” sono entrati nella storia) si unisce alla videocall baldanzosa, aspetta che io interrompa gli sproloqui in corso e ci saluta col suo “ciaaao” e quel sorriso che nasconde i milioni di pensieri che sta già cercando di mettere in ordine, pensando a come tenere da parte quelli che tanto poi noi coglieremo lo stesso.

Infine Mathi, che si collega un po’ quando gli pare e, anziché prendere parte ai nostri voli pindarici, si mette a cercare i nostri nomi su Google, per trovare il modo di spegnerci con uno screenshot dissacrante. Solitamente poi noi ci cappottiamo, mentre lui se la ride sotto i baffi e beve il suo bicchierino come un divo di Hollywood che si allontana in slow-motion, mentre alle sue spalle il palazzo esplode.

Ok, premo effettivamente “Avvia una nuova riunione” e quello che segue è esattamente ciò che ho appena descritto. A parte Mathi, che a ‘sto giro è talmente divo da non presentarsi del tutto, ma furbo lui, perché oggi tocca parlare della malsana idea di fare un redazionale sul primo anniversario di “Gigaton” dei Pearl Jam. Tutti e quattro i pixel che compongono l’immagine in alta risoluzione di Dani si animano e con un secondo di ritardo la sue parole ci spingono a guardare la Spada di Damocle che pende sulle nostre teste: “come ne possiamo parlare?”.

Personalmente sono un po’ in difficoltà, perché dei tre io sono l’unico che non ha una recensione di un anno fa con il quale misurarsi. Non ho scritto sulla su “Gigaton” nel 2020. O meglio, non ho scritto nessun articolo, perché invece nella reclusione del primo lockdown di parole per questo disco, questa band e sul significato dell’uscita di quel 27 marzo, ne ho spese tante. E quasi tutte indirizzate alle stesse persone che ora mi stanno parlando da uno schermo. Dani, che aveva ceduto e l’aveva ascoltato prima di noi, mi scriveva: «Umbe, è una bomba. Su “Quick Escape” tu sfondi il soffitto». Lui ama fare il cinico che odia e disinnesca il mondo, ma è solo attento a scegliere a chi mostrare l’altra preziosa faccia della medaglia. E incredibilmente sembra apprezzare due dinamitardi come me e Lalli. Ecco, con lei invece ho condiviso il primo ascolto del disco, track by track, emozioni e riproduzioni sincronizzate.

Come accade quasi sempre, inizio a parlare articolando frasi che fanno credere che io sappia esattamente cosa voglio dire, come se avessi un discorso collaudato da propinare come un copione. In realtà ogni volta che comincio non so mai dove voglio andare a parare, sono solo bravo a governare la mia bagnarola nel mare in tempesta. Non so bene cosa sto dicendo, ma Dani, come sempre, sembra dare più valore di me alle mie stesse parole. Nel frattempo mi accorgo che Lalli è agitata. Sorrido, so. La mia mente fa un balzo indietro, al 22 gennaio 2020, giorno in cui la band pubblica il singolo di lancio di “Gigaton”: “Dance of the Clairvoyants”. I fan dei Pearl Jam – intesi come quella mutazione genetica della specie alla quale anche noi tre appartiamo e dalla quale Dani da tempo si guarda bene dall’avvicinarsi – avevano già iniziato il loro processo di corrosione, alla quale non sempre Lalli riesce a essere immune. Le scrivevo questo messaggio: «Non farti condizionare troppo, per quanto sia difficile. La musica come la viviamo noi è prima di tutto una questione intima, non fartela rovinare dai commenti di gente di cui non ti frega nulla. Se ti può consolare: a me piace 🙂».

Parlando, ridendo, analizzando, ci rendiamo conto di una cosa incredibile. Siamo tutti d’accordo sul fatto che artisticamente di Gigaton, un anno dopo, sia rimasto ben poco. Siamo tutti d’accordo nel ridimensionare la prima impressione e i toni che l’avevano accompagnata. Siamo tutti molto delusi da come i membri stessi della band sembra abbiano gettato il disco in pasto al mondo, senza aver voglia di parlarne, con il pubblico ma probabilmente neanche tra di loro. Allo stesso tempo, però, realizziamo che un anno fa tutti e tre avevamo bisogno di “Gigaton”, tutti e tre ci siamo rifugiati, per un breve momento, nelle sue imperfezioni, dimenticandoci di cosa potesse significare per il mondo esterno. Una bolla, “in a Kerouac sense of time”

In una delle mie folgorazioni olistiche, mi accorgo che il 27 marzo 2020, l’uscita di “Gigaton”, è un formidabile marker temporale. Il punto da cui inconsciamente faccio partire la mia esperienza musicale pandemica. Da lì in avanti, la musica è stata la risposta a ogni domanda che questo folle momento storico ha portato con sé. Rivivo quella release, quel giorno, come una promessa. Una che non si può smettere di mantenere e onorare. Parafrasando proprio Kerouac, mi viene da dire “this is the music, what it does to you”.

Penso a quanto vorrei che fossimo tutti insieme nella stessa stanza (anche Mathi, che potrebbe versare i suoi alcolici anche nei nostri bicchieri, per una volta), a che merda sia vivere lontani in un momento del genere. Mi chiedo anche se qualcuno di loro noterà mai il messaggio in codice che ho composto alle mie spalle, ma penso di no. So per certo, però, che almeno una volta all’anno ognuno di noi sentirà il bisogno di mettere su “Gigaton” e riascoltarlo come fosse la prima volta, dandogli un’altra chance. Proprio come stasera.

Umberto Scaramozzino

Foto copertina di Mathias Marchioni.

Close Menu
So walk tall, or baby, don't walk at all.