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Le grandi beffe che il Diavolo ha perpetrato all’uomo sono due. Una, notoriamente, è quella di farci credere che uno come Kaiser Soze non esista. L’altra ve la dico io: quella di convincerci che in qualche modo noi siamo diversi dagli altri, che siamo unici, speciali. Così mi sentivo quando di fronte a William DuVall cercavo in tutti i modi di impressionarlo parlandogli del suo gruppo degli esordi, Comes With The Fall, che conoscevo praticamente solo io in Italia (non è vero) o di quando lui stesso aveva condiviso la mia recensione del suo album con i Giraffe Tongue Orchestra (sai che roba, le aveva condivise praticamente tutte da tutto il mondo). Insomma avevo davanti a me il cantante degli Alice In Chains, il mio gruppo preferito. Milano 2018, Carroponte, c’eravate? Ero agitato. Nella stessa stanza, a pochi metri, un’altra testata stava facendo una video intervista al tandem Mike Inez/Sean Kinney, rappresentanti la sessione ritmica e letteralmente due cimeli provenienti da un’altra epoca. E cosa faceva Jerry Cantrell, guitar hero vivente e principale compositore di alcuni tra i più bei monumenti della musica rock? Nulla. Lui non si faceva intervistare, girava lì intorno facendo la cosa che gli viene meglio dopo il creare capolavori musicali: mettere in soggezione. Sul suo volto incupito e immobile un monito silenzioso che non potevo skippare: NON CHIEDERE DI LAYNE. Lo sentivo, lo percepivo. Forse influenzato dal comunicato alla stampa del manager del gruppo, non chiedete, per l’amor della musica, non chiedete. Questo per farvi capire come la mia venerazione per il personaggio sia influenzata come un pianeta da un buco nero dal fatto che, tendenzialmente, considero Jerry Cantrell uno stronzo. Ma facciamo quelli che chiudono il recinto quando i buoi sono scappati, e proviamo ad andare per ordine.

Jerry Cantrell è a capo chino davanti alla tomba di Chris Cornell, al funerale del cantante dei Soundgarden nel 2017. Sguardo basso, spalle abbandonate, come se tutto quello che è venuto dopo il periodo d’oro del grunge fosse davvero troppo anche per uno che ha dimostrato più volte di avere la pelle dura. Uno che a guardarlo più che l’immagine classica di un sensibile e problematico musicista di Seattle sfoggia quella di un coriaceo cowboy texano. Però è troppo tempo che la vita ha smesso di dare e ha cominciato a prendere, sono troppi gli amici e colleghi perduti lungo la strada per il successo. Un successo che ora appare lontano, un ricordo sfocato ma puntualmente crudele nel presentare i suoi conti. Una volta la comunità di Seattle si incontrava nei locali della città, ora ai funerali.

Sostituiamo quest’immagine di disincanto e rassegnazione con il ricordo dell’esibizione del 1996 al Majestic Theatre di New York, passato alla storia con il famigerato marchio dell’MTV Unplugged. Una macchia che sporca da sempre il mio mito personale, una dissonanza fastidiosa che ricorre ogni volta che penso alla venerazione che provo per Cantrell e mi impedisce di assaporarla, di godermela appieno. Parlo degli sguardi rivolti a Layne Staley. Un fratello allontanato da una brutta, bruttissima scimmia e divenuto un oggetto estraneo. Due entità sbalzate dalla centrifuga del successo in due galassie diverse. Quel tipo di sguardi non li ho mai visti in nessuna altra band e dicevano molto di come fosse andata in malora l’anima del gruppo.  Era l’occhio di un principale preoccupato per la sua azienda, messa in pericolo da un dipendente problematico. Penso al sorriso  che fece quando Layne sbagliò il primo verso di “Sludge Factory”, (“Fuck!!”) costringendo la band a ricominciare daccapo (lo trovate non nell’album ufficiale, ma negli special dello show). Un sorriso per metà di circostanza, mentre l’altra metà esprimeva il fastidio di non avere più il controllo della sua creazione.  Jerry ha scritto il 90% dei testi, anche di quelle  canzoni che tutti identificano con Layne Staley, come “Would?” o “Down in a Hole” o “Nutshell”. Ha accettato di buon grado di cedere le sue parole all’immagine del frontman che già era iconica ancor prima di morire, e ovviamente alla sua voce senza pari, ma le redini degli Alice In Chains sono sempre state nelle mani salde di Cantrell. Layne poco prima di morire disse «Non chiedete di me agli altri della band, non sono miei amici». Questa uscita mi è rimasta impressa, per anni. Ok, la paranoia di un tossico, la costrizione annichilente di un’industria che schiaccia ogni sentimento umano come empatia o compassione. Ma Jerry sembrava davvero esasperato dalla situazione dovuta alla dipendenza in fase finale del suo lead singer e questo li ha allontanati irrimediabilmente, mettendo il chitarrista sotto una luce della storia sgradevole, cinica, opportunista. Capisco come un’amicizia possa marcire. Insomma voi al posto suo come vi sareste comportati? Layne è morto solo, questo è un dato di fatto. Un fratello non lascia morire il suo gemello in solitudine, con un ago nel braccio, a prescindere da quanto la sua alienazione lo abbia portato alla deriva. Forse l’unica persona che realmente sa cosa hanno passato è la manager del gruppo, Susan Silver, ex moglie di Chris Cornell. Quanti soldi in fumo, per non parlare del blocco della carriera di Jerry, rimasta congelata dal 1996 al 2010 (anno di uscita del comeback della band, “Black Gives Way To Blue”), nonostante la pubblicazione di due album solisti. Jerry il Pifferaio Magico è detentore del potere di creare un suono che ha fatto la storia e che in molti hanno seguito e copiato, che ha copiato perfino lui stesso nella seconda parte di vita degli Alice In Chains, quella di William DuVall alla voce. Un creatore di mondi che improvvisamente si è trovato decapitato da un destino beffardo.

Jerry Cantrell. MTV Unplugged

Abbiamo una sorta di lieto fine, però. Jerry ha dimostrato che la passione, il talento e il lavoro pagano. Ha riportato in vita il gruppo più per acclamazione che per volontà personale, vivendo di mitologia ma regalando comunque al pubblico tre buonissimi album (oltre il già citato “Black Gives Way to Blue”, anche “The Devil Put Dinosaurs Here” e l’album tributo alla città madre “Rainier Fog”) ribadendo di essere lui il detentore del marchio sonoro. Il tributo che  Seattle e il mondo intero tramite il MoPOP Founders Awards ha dato a lui e agli Alice In Chains nel 2020 è stata una cosa giusta e dovuta, nonché un successone dell’evento online che (in maniera tutt’altro che scontata e a differenza di molti altri) è riuscito ad aggirare con classe e maestria le limitazioni dovute alla pandemia globale. Abbiamo visto la storia vecchia fare pace con quella nuova, e ora c’è un disco solista pronto che si spera non solo abbia più fortuna dei precedenti, ma che possa dare loro la luce che non hanno mai avuto, offuscata dall’ombra della malattia e latitanza prima (Boggy Depot, 1998) e dalla morte dopo (Degradation Trip, 2002) di Layne Staley. Dopo un anno di lavoro ora è finito, e so già la sensazione che avrò alla prima nota del nuovo album: quel distacco dalla realtà capace di farmi perdere per ritrovarmi che ho sempre trovato nella sua arte. Abbraccerò quella magia unica che mi ha accompagnato per metà della mia vita, la seconda metà, quella scomoda e ostile nelle Terre Desolate dell’adolescenza. Magia in grado di prendere le mie emozioni più cupe e trasformarle in qualcosa di fascinoso, bello, intrigante. Sensazioni potenzialmente letali, ma che diventano gestibili come serpenti a sonagli ammaestrati da un Pifferaio Magico. Grazie alle sue melodie e alle sue parole questi coltelli prima girati dalla parte della lama posso ora volgerli all’esterno, lontano dal mio nucleo vitale. Una passione e un’arte possono trasformare debolezze in armi. Puoi affrontarle, guardarle e trovarle più accettabili e perché no, quasi amichevoli. Demoni una volta nemici e adesso alleati. Come nemici fraterni.

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So walk tall, or baby, don't walk at all.