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Siedi, beviamoci qualcosa. Senti, volevo chiederti… Te li ricordi i Prophets Of Rage? No? Beh, ti capisco. Erano più che altro una scusa per suonare. Diciamocelo: se io e te avessimo una band e volessimo sfogarci un po’, magari scappare dalle nostre quattro mura di casa e vivere i nostri ricordi pieni di polvere, dove andremmo? In sala prove ovviamente. Magari nel garage di uno di noi, con gli amplificatori adagiati di fianco al decespugliatore e le taniche di benzina. Tom Morello, invece, faceva i Festival e i tour, ci sta. È una rockstar. Il cantante non era nemmeno uno qualsiasi, era una vera istituzione del rap, B-Real dei Cypress Hill. Sai quello con la bandana in testa?

Però, vacci piano con quel whiskey!

Ti dicevo, c’era questo velo di imbarazzo, un po’ per tutti. Insomma, nessuno voleva ascoltare i Prophets. E fidati: nessuno voleva ascoltare la loro musica. Il pubblico stava lì e voleva sentire le canzoni dei Rage Against The Machine o degli Audioslave. Quindi non c’è da stupirsi di quella volta nel 2017. Non posso scordarla, non riesco.

Senti, ne vuoi un altro? Anche io. Cavolo, anche io.

Era il 20 gennaio, a Los Angeles. Come dicevo, il povero B-Real provava a reggere una farsa impossibile da reggere, e quasi con sollievo credo se ne sia liberato. Dopo un set frettoloso, come quando un presentatore annuncia un evento clamoroso e ti si torcono le budella quando inizia a tergiversare e non si decide a levarsi di torno, ecco che partono le famigerate schitarrate di Morello. Quel riff onomatopeico dell’elicottero di “Cochise” che attesta l’arrivo della vera star.

Ed eccolo. Credimi, non hai mai visto veramente un musicista fare la sua entrata sul palco se non lo hai visto fare a Chris Cornell. Era uno spettacolo. Il primo impatto mi ha riempito il cuore come questo alcool mi sta riempendo di caldo le viscere. Perché l’ultima immagine che avevamo degli Audioslave era del Cornell con i capelli corti, la canotta un po’ tamarra. E se i restanti del gruppo, Morello su tutti ma anche Wilk e Commerford, apparivano pressoché invariati, Cornell era quello della reunion dei Soundgarden, con i capelli di nuovo lunghi come quando era ragazzo, prima di “Badmotorfinger”, per intenderci, e la barba. Facciamo un giochino? Tu mi fai vedere una foto a caso di Chris e io ti posso dire con precisione a quale periodo risale. Solo che ora non mi va molto di giocare.

Era una reunion a tutti gli effetti, ok? Dodici anni dopo l’ultima volta.  La cosa che non la rendeva completamente ufficiale era il fatto di essere un’occasione singola, per protestare contro l’insediamento di Trump. Buffo se ci pensi oggi, dopo tutto quello che ha combinato e dopo che è mancato tanto così che lo riconfermassero. Un’altra volta discuteremo se serva o no protestare oggi, se davvero faccia la differenza.

Insomma, come posso dirlo, dopo questa ondata di piena esaltazione iniziale, mi sono subito reso conto che qualcosa non andava. Sai, quella sensazione periferica. Ad oggi non ho ancora sentito nessuno, né della stampa e nemmeno tra la gente comune, che condividesse questa mia sensazione. Ma è stata potente, come può esserlo un presagio. Esistono queste cose secondo te? Una “zona morta” del nostro cervello dove si sviluppano delle istantanee di sventura? La sai quella storia secondo cui le statistiche registrano un sacco di disdette all’ultimo momento dei voli che poi hanno incidenti e cadono?

Mi venga un colpo, non c’è abbastanza alcool in questo locale e non ce ne sta abbastanza nel nostro stomaco per fare discorsi del genere.

Gli occhi di Chris. È stato quello. Posso assicurarti che non è stato semplice scovarli, in mezzo a tutti quei capelli e non solo. Erano molto piccoli, velati. Le pupille dilatate. Gli davano una distanza abissale dal contesto. Capiamoci, una sorta di distacco c’è sempre stato in lui, ma consapevole. Questa volta, porca puttana, sanguinava il contrasto tra la sua assenza e l’impegno e la voglia di dimostrare il contrario. Di essere sul pezzo, di avere veramente voglia che quella cosa funzionasse. Perché, oggi lo sappiamo, c’era molto più in ballo. C’era la voglia di continuare a vivere. Il disperato bisogno di trovare un senso a tutto, a quel palco, a quegli occhi che lo bramavano.

Ad un certo punto, sulle note di “Show Me How To Live”, faccio un balzo. Non ero lì, bada, vedo che te lo stai chiedendo. Non ero a Los Angeles. Ero a casa, davanti al pc. Video amatoriale, solita solfa. Blocco lo streaming, torno un passo indietro, perché quel gesto che mi si parava davanti agli occhi era troppo strano, anacronistico. Chris Cornell si getta in uno stage diving d’altri tempi sulle braccia della folla. Scrollo la testa, mi dico: “cavolo”. È veramente tornato quello di un tempo, di quando era giovane, mi dicevo. E ci volevo credere. Cazzo, gli ultimi tempi, quel 2017, era tutto quello che i fan si erano solo azzardati a sognare. C’erano i Soundgarden, un tour dei Temple Of The Dog con promessa di un nuovo album. Tornavano gli Audioslave. L’album solista di Cornell, “Higher Truth”, era il manifesto della felicità, della consapevolezza, dell’equilibrio. Però quegli occhi… C’era un velo. C’è sempre stato. Poteva fregare un osservatore distratto, ma non me.

Ne vuoi un altro? Sono a due drink dal piangere, come diceva quella strana canzone nascosta in quello strano album: “Scream”. Una canzone blues acustica nascosta  nella facciata di un disco da ballare. Crepe, che si trovano se guardi con attenzione. Com’era quella cazzata di cui molti si riempono la bocca? È dalle crepe che entra la luce? Nah, senti me. Nelle crepe si sprofonda. E non si torna quasi mai indietro. D’altronde, ora che ci penso, quella canzone aveva due titoli. Può succedere, è una di quelle denominate “canzoni fantasma”. Hai avuto un brivido eh, lo vedo. “Two Drink Minimum”, come dicevo, ma la puoi trovare anche sotto il nome “As Hope And Promise Fade”. Cioè quando la speranza e quando tutte le promesse che hai fatto a te stesso ti mollano, scompaiono dentro quella crepa.

Ehi, amico. Tu hai una crepa. Io ho una crepa, tutti ce l’hanno. Teniamoci per mano, e non sprofondiamoci dentro, vuoi?

Foto copertina di Mathias Marchioni

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