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Da parecchio tempo, quando si legge in giro di Marilyn Manson il cliché è sempre lo stesso, anche se declinato in due varianti.

Prima variante: «Manson è cresciuto, si è liberato dallo stereotipo dell’anticristo e ora ha trovato una nuova dimensione, più matura. D’altra parte il tempo e di conseguenza l’età non potevano permettergli altra scelta».
Seconda variante: «Manson continua a provare ad essere l’anticristo, ma il tempo e di conseguenza l’età ci restituiscono una polaroid sbiadita di quello che fu».

Sarà l’esperienza ventennale “sul campo” (il primo concerto di Manson lo vidi nel 1999), sarà che ad un certo punto ti rompi le palle di leggere sempre le stesse cose ad ogni nuovo album che esce, sarà quel che sarà, ma di certo mi sono fatto un’idea dell’artista decisamente in contrasto con le due immagini di cui sopra.

Prima di tutto, togliamoci subito il dente e parliamo dell’altra costante che segue il Reverendo ad ogni sua uscita, musicale e non: alla pari di Axl Rose, anche Marilyn Manson viene sistematicamente preso per il culo da una buona parte dei fruitori di musica Rock/Metal. Entrambi sono stati icone di movimenti identitari molto forti: i tamarri del rock il primo e i satanisti del rock il secondo. Entrambi hanno raggiunto picchi di successo che hanno pochi simili nella storia della musica, per circa un decennio di carriera. Entrambi si sono comportati da vere rockstar, sempre per lo stesso lasso di tempo, ed entrambi, infine, al primo sintomo di debolezza pubblica sono subito stati presi di mira da beceri e ripetuti commenti: sul fisico in primis e sulle qualità artistiche in seconda battuta.

Finisce sempre così, se sei una rockstar che ha avuto un impatto generazionale forte: o crepi quando sei al vertice, oppure, se hai la “sfortuna” di sopravvivere ai tuoi demoni o eccessi, fanno di tutto per screditarti, ancora non si è capito in nome di cosa.
La verità è che tutti invecchiamo e di base non è piacevole, sotto certi aspetti. Se sei una rockstar, poi, fa ancora più schifo, se vuoi continuare a far musica.

E già sento qualche vocina di sottofondo, del tipo: «eh, ma i The Rolling Stones», «eh, ma gli AC/DC»… Eh ma niente. Il trattamento riservato alle due band appena citate dovrebbe essere la normalità e non l’eccezione, anche di fronte a cali artistici notevoli (eravate agli ultimi due concerti italiani degli Stones e degli AC/DC? Vi son piaciuti? Nel caso ci sarebbe un problema di fondo) dovremmo quanto meno contestualizzare il tutto ed essere onesti.
Se a quei mostri sacri è concesso mostrare debolezze, anche se sono macroscopiche e si traducono in concerti al di sotto della sufficienza, dichiararlo apertamente è come passeggiare a piedi scalzi sulla spiaggia di Utah Beach nel 1944, mentre farlo su Manson è la normalità e oggi, ancor più amplificato dai social e dal loro disturbante effetto collaterale del “commento tutto in modo simpatico”, pare sport nazionale.

Chiuso questo capitolo, parliamo un po’ di musica.
I Marilyn Manson hanno avuto il loro periodo d’oro artistico dal 1994 al 2004, cinque album in studio e altrettanti tour mondiali di altissimo livello dove un frontman a dir poco carismatico e disturbante, coadiuvato da una band di ottimi musicisti (John5 su tutti), ha lasciato un segno indelebile nella storia musicale industrial rock metal e ancor di più nella Società di tutto il globo.

Finito questo periodo d’oro proprio con un album celebrativo dal titolo quantomeno premonitore – “The Golden Age of Grotesque” – i Marilyn Manson escono dalle scene, con un percorso netto invidiabile.

I successivi 15 anni e 6 album sono di fatto un progetto solista di Brian Warner, che per sua scelta personale e artistica continua ad usare il nome che fu della band. Scelta legittima, anche se per molti tutt’oggi fuorviante.
Trovatosi da solo, la difficoltà principale di aver perso l’apporto artistico di una band composta non da comprimari è stato spesso, ma non sempre, brillantemente superato dalla scelta del produttore, mentre dal punto di vista della direzione delle atmosfere dei dischi, una totale libertà di azione ha portato a toccare alcune vette da un lato inaspettate e dall’altro davvero di altissimo livello: un album blues come “The Pale Emperor”, su tutti, ma non possono non essere citati episodi pop come nell’ultimo “We are Chaos” o ritorni al furioso passato come in “Born Villain” o in “Heaven Upside Down”.

Non starò qui a ripercorrere le singole tappe della carriera della band originaria della Florida. Milioni di copie vendute, migliaia di ore spese dai talk show per parlare del fenomeno, tonnellate di inchiostro su carta mandata alle stampe. Mi lancerò piuttosto su un divertissement letterario partendo dai dieci comandamenti biblici per mutuarli in chiave mansoniana e cercare così di sintetizzare il fenomeno musicale Brian Warner e, chissà, provare una volta per tutte ad affossare certi cliché che hanno davvero stancato.

I Dieci Comandamenti Mansoniani

  1. Non ci saranno altri album all’altezza di “Antichrist Superstar”, “Mechanical Animals” e “Holy Wood”
  2. Non nominare il nome di “Eat Me, Drink Me”
  3. Ricordati di santificare i concerti che hai visto fino al 2001
  4. Onora il padre Trent Reznor
  5. Non uccidere ogni rockstar che sopravvive ai suoi eccessi
  6. Non commettere atti impuri con ogni moglie e compagna che Manson si trova
  7. Non rubare i soliti cliché sulle rockstar che sopravvivono ai loro eccessi
  8. Non dire falsa testimonianza e ammetti che “The Pale Emperor” è un gran disco
  9. Non desiderare la donna d’altri. Vedi comandamento nr.6
  10. Non desiderare la roba d’altri. Se dopo 25 anni siamo ancora qui a parlare di lui come fenomeno musicale e di costume, ha ragione lui.

Foto copertina di Mathias Marchioni.

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